Nel 1990 (e poi di nuovo nel 1997) la Corte suprema nordamericana ha rifiutato ad alcune tribù indigene dell'Oregon il diritto d'usare peyote in una loro cerimonia religiosa, benché nella fattispecie si trattasse di un' antica tradizione di quei popoli. In Italia - nel febbraio del 2003 -la Cassazione ha deciso che una ragazza madre non può insegnare religione nelle scuole pubbliche, se il vescovo le toglie l'incarico. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi facilmente. Ma sta di fatto che il pericolo più grave per i culti forse oggi non proviene dal potere temporale: viene dagli altri culti. Questo perché l'intolleranza religiosa è un'idra a due teste, l'una girata verso la società civile l'altra verso quella religiosa, e cova nelle piccole come nelle grandi religioni. I pueblo, una tribù indiana degli Stati Uniti, negano ad esempio le agevolazioni per la casa ai membri della comunità che non si sono convertiti al protestantesimo. Gli islamici, al pari dei cattolici, reclamano leggi contro la bestemmia, nonostante il carattere laico degli Stati occidentali. Tale la richiesta di alcuni leader musulmani in Gran Bretagna, dopo la vicenda di Salman Rushdie, il celebre scrittore accusato di apostasia; tale la campagna di stampa dell'«Osservatore Romano» (nell'ottobre 2000) per ottenere l'oscuramento di un sito web dove si bestemmiava la Madonna. «Dietro ogni blasfemo c'è un giardino incantato» cantava Fabrizio De André mettendo in musica un personaggio dell' Antologia di Spoon River. Non sempre è così, naturalmente; tuttavia il reato di bestemmia contro i simboli della «religione dello Stato» (i santi) è stato espulso dai nostri codici penali nel 1995, dopo una sentenza del tribunale costituzionale pronunziata in nome del principio d'eguaglianza tra le confessioni religiose. Ed è pressoché superfluo aggiungere che ripristinarlo equivarrebbe a fare un bel passo indietro. Ma ciò non toglie che per gli ordinamenti occidentali non tutti i culti sono uguali: ci sono i figli, e ci sono i figliastri. Negli Stati Uniti e in Canada le minoranze religiose occupano meno d'un terzo dei seggi che gli spetterebbero in base alloro peso demografico. Il principio di laicità è spesso più affermato che coerentemente praticato; o meglio, vale per i deboli, non già per la religione dominante. Così, Paesi come l'Italia o la Baviera espongono il crocifisso nelle aule scolastiche, negli ospedali, nei luoghi pubblici, nonostante il multiculturalismo delle loro società, e nonostante le polemiche che ciclicamente si rovesciano contro la normativa che ne impone l'affissione. Per restare nell' ambito scolastico, basti pensare che l'ora di religione, in Italia, ha costretto lo Stato a interventi sempre più massicci: e infatti in oltre mezzo secolo (dal 1929 al 1985) la materia è stata regolata da 3 leggi, 7 circolari ministeriali e una sentenza del Consiglio di Stato; viceversa dal 1986 al31 marzo 2002 si sono avvicendate 19 leggi, 167 circolari ministeriali, almeno 80 sentenze dei tribunali amministrativi regionali, 25 decisioni del Consiglio di Stato e 7 della Corte costituzionale. Sempre in Italia, il governo ha stipulato varie intese con i culti diffusi nel territorio dello Stato, applicando nella fattispecie l'articolo 8 della Costituzione: norma laica e liberale, che intende garantire attraverso questa procedura l'autonomia di ogni confessione religiosa, e il suo rispetto da parte degli apparati pubblici. Ma il risultato è stato poi l'appiattimento di ogni religione sugli standard già riconosciuti alla Chiesa cattolica attraverso il Concordato, a scapito delle rispettive identità; e così, per esempio, !'intesa siglata il 20 ottobre 1999 con l'Unione buddhista italiana usa il termine «ministro di culto», tipico del linguaggio cattolico e però del tutto estraneo alla tradizione filosofica buddhista. Insomma: l'intolleranza religiosa, che in questo primo scorcio di millennio attecchisce in vasti strati della società civile, in quella politica si traduce in discriminazione, o quanto meno nella pretesa d'omologare alla religione dominante quelle di più recente insediamento. Non è proprio uno scenario edificante.
2 commenti:
iserisco il tuo link ciao, http://rosanelpugno/ilcannocchiale.it
Nel 1990 (e poi di nuovo nel 1997) la Corte suprema nordamericana ha rifiutato ad alcune tribù indigene dell'Oregon il diritto d'usare peyote in una loro cerimonia religiosa, benché nella fattispecie si trattasse di un' antica tradizione di quei popoli. In Italia - nel febbraio del 2003 -la Cassazione ha deciso che una ragazza madre non può insegnare religione nelle scuole pubbliche, se il vescovo le toglie l'incarico.
Gli esempi potrebbero moltiplicarsi facilmente. Ma sta di fatto che il pericolo più grave per i culti forse oggi non proviene dal potere temporale: viene dagli altri culti. Questo perché l'intolleranza religiosa è un'idra a due teste, l'una girata verso la società civile l'altra verso quella religiosa, e cova nelle piccole come nelle grandi religioni. I pueblo, una tribù indiana degli Stati Uniti, negano ad esempio le agevolazioni per la casa ai membri della comunità che non si sono convertiti al protestantesimo. Gli islamici, al pari dei cattolici, reclamano leggi contro la bestemmia, nonostante il carattere laico degli Stati occidentali. Tale la richiesta di alcuni leader musulmani in Gran Bretagna, dopo la vicenda di Salman Rushdie, il celebre scrittore accusato di apostasia; tale la campagna di stampa dell'«Osservatore Romano» (nell'ottobre 2000) per ottenere l'oscuramento di un sito web dove si bestemmiava la Madonna. «Dietro ogni blasfemo c'è un giardino incantato» cantava Fabrizio De André mettendo in musica un personaggio dell' Antologia di Spoon River. Non sempre è così, naturalmente; tuttavia il reato di bestemmia contro i simboli della «religione dello Stato» (i santi) è stato espulso dai nostri codici penali nel 1995, dopo una sentenza del tribunale costituzionale pronunziata in nome del principio d'eguaglianza tra le confessioni religiose. Ed è pressoché superfluo aggiungere che ripristinarlo equivarrebbe a fare un bel passo indietro.
Ma ciò non toglie che per gli ordinamenti occidentali non tutti i culti sono uguali: ci sono i figli, e ci sono i figliastri. Negli Stati Uniti e in Canada le minoranze religiose occupano meno d'un terzo dei seggi che gli spetterebbero in base alloro peso demografico. Il principio di laicità è spesso più affermato che coerentemente praticato; o meglio, vale per i deboli, non già per la religione dominante. Così, Paesi come l'Italia o la Baviera espongono il crocifisso nelle aule scolastiche, negli ospedali, nei luoghi pubblici, nonostante il multiculturalismo delle loro società, e nonostante le polemiche che ciclicamente si rovesciano contro la normativa che ne impone l'affissione. Per restare nell' ambito scolastico, basti pensare che l'ora di religione, in Italia, ha costretto lo Stato a interventi sempre più massicci: e infatti in oltre mezzo secolo (dal 1929 al 1985) la materia è stata regolata da 3 leggi, 7 circolari ministeriali e una sentenza del Consiglio di Stato; viceversa dal 1986 al31 marzo 2002 si sono avvicendate 19 leggi, 167 circolari ministeriali, almeno 80 sentenze dei tribunali amministrativi regionali, 25 decisioni del Consiglio di Stato e 7 della Corte costituzionale.
Sempre in Italia, il governo ha stipulato varie intese con i culti diffusi nel territorio dello Stato, applicando nella fattispecie l'articolo 8 della Costituzione: norma laica e liberale, che intende garantire attraverso questa procedura l'autonomia di ogni confessione religiosa, e il suo rispetto da parte degli apparati pubblici. Ma il risultato è stato poi l'appiattimento di ogni religione sugli standard già riconosciuti alla Chiesa cattolica attraverso il Concordato, a scapito delle rispettive identità; e così, per esempio, !'intesa siglata il 20 ottobre 1999 con l'Unione buddhista italiana usa il termine «ministro di culto», tipico del linguaggio cattolico e però del tutto estraneo alla tradizione filosofica buddhista. Insomma: l'intolleranza religiosa, che in questo primo scorcio di millennio attecchisce in vasti strati della società civile, in quella politica si traduce in discriminazione, o quanto meno nella pretesa d'omologare alla religione dominante quelle di più recente insediamento. Non è proprio uno scenario edificante.
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